Nell’introduzione a uno dei testi più influenti della geografia dei media, Cinematic Geopolitics (2009), Michael Shapiro sceglie due eventi concomitanti per costruire il terreno della propria riflessione: nel gennaio del 2005, mentre George Bush ribadiva il proprio impegno nella war on terror in occasione dell’inaugurazione del suo secondo mandato, l’autore si trovava a Tromsø in Norvegia come membro della giuria per il Norwegian Peace Film Award. Il festival è per Shapiro uno spazio a partire dal quale riflettere criticamente sulla relazione tra il cinema e la pace e sulle sue implicazioni geopolitiche, con particolare riferimento ai modi in cui alcuni film possono interferire con le rappresentazioni degli spettatori e orientarle verso sentimenti simpatetici e non violenti. La fotografia di Nick Ut della bambina in fuga dalle bombe napalm a Trang Bang in Vietnam e le geografie globali della sua ricezione, il film di Stanley Kubrick Orizzonti di gloria osteggiato dall’esercito statunitense e vietato dalla censura francese fino al 1975, il significativo ruolo dei social media nella campagna “Ceasefire now” per la pace in Palestina sono solo alcuni esempi della centralità dei media nelle geografie per la pace. I media fanno parte delle “geografie periferiche”, descritte da John K. Wright in uno degli articoli che hanno cambiato la storia della disciplina (Terrae Incognitae: The Place of the Imagination in Geography, 1947), ovvero sono alcuni dei veicoli attraverso cui costruiamo la nostra immaginazione geografica, il sapere territoriale in base al quale agiamo. Sono il tramite mediante cui “normalizziamo” la realtà, accettandola come “naturale”, anche quando naturale non è (Dematteis, 1985). Sono il mezzo che consolida il catalogo di categorie interpretative, date-per-scontate, ossia il “discorso” con cui diamo un senso al mondo (Dittmer, Bos, 2019; dell’Agnese, 2024). Non solo, i media possono avere un potere performativo nella costruzione di una “pace negativa” (intesa come assenza di conflitto) e più generalmente possano farsi promotori di una “pace territoriale” o strutturale grazie all’esperienza immersiva e di immedesimazione che offrono attraverso la loro originale dimensione narrativa. Come scrivono Dittmer e Bos (2019), i media possono creare una affective atmosphere, possono coinvolgere, indirizzando emozioni e sentimenti, possono costruire una narrativa nazionale, esaltando le azioni “eroiche” dei “nostri”, o indurre a una revisione critica. A questo proposito, restano esemplari le parole di Edward Said nell’introduzione a Palestina di Joe Sacco: I fumetti, nel loro implacabile portare in primo piano, sembravano dire qualcosa che non poteva essere detto diversamente, forse ciò che non era permesso dire o immaginare, sconfiggendo i normali procedimenti del pensiero, generalmente protetti, modellati e rimodellati da ogni specie di pressione pedagogica o ideologica (Said, 2002, pp. ix-x). È forse questa l’apertura che consentono i media? Quella di raccontare e “orientare attraverso sentimenti simpatetici”? È forse questo il punto su cui insistere? Il concetto di conscientization può essere il nostro perno: Conscientization is a pedagogical process defined by critical engagement with understandings of the world that leads people to actively reject established rationalizations of unequal power relations and oppression […] the goal of conscientization is for people to comprehend their existence ‘in and with the world’ (Carleton, 2014, p. 161). Diventa quindi necessario tenere insieme da un lato la specificità del racconto dei media sulla pace, la loro forza discorsiva, e dall’altro la loro capacità di intervenire sui corpi e sugli spazi attraverso linguaggi creativi e originali.
Frixa, E., Dell'Agnese, E., Picone, M. (2025). Media e geografia, fra popular geopolitics e propaganda. Milano : Unicopli Soc. Coop..
Media e geografia, fra popular geopolitics e propaganda
Emanuele Frixa;
2025
Abstract
Nell’introduzione a uno dei testi più influenti della geografia dei media, Cinematic Geopolitics (2009), Michael Shapiro sceglie due eventi concomitanti per costruire il terreno della propria riflessione: nel gennaio del 2005, mentre George Bush ribadiva il proprio impegno nella war on terror in occasione dell’inaugurazione del suo secondo mandato, l’autore si trovava a Tromsø in Norvegia come membro della giuria per il Norwegian Peace Film Award. Il festival è per Shapiro uno spazio a partire dal quale riflettere criticamente sulla relazione tra il cinema e la pace e sulle sue implicazioni geopolitiche, con particolare riferimento ai modi in cui alcuni film possono interferire con le rappresentazioni degli spettatori e orientarle verso sentimenti simpatetici e non violenti. La fotografia di Nick Ut della bambina in fuga dalle bombe napalm a Trang Bang in Vietnam e le geografie globali della sua ricezione, il film di Stanley Kubrick Orizzonti di gloria osteggiato dall’esercito statunitense e vietato dalla censura francese fino al 1975, il significativo ruolo dei social media nella campagna “Ceasefire now” per la pace in Palestina sono solo alcuni esempi della centralità dei media nelle geografie per la pace. I media fanno parte delle “geografie periferiche”, descritte da John K. Wright in uno degli articoli che hanno cambiato la storia della disciplina (Terrae Incognitae: The Place of the Imagination in Geography, 1947), ovvero sono alcuni dei veicoli attraverso cui costruiamo la nostra immaginazione geografica, il sapere territoriale in base al quale agiamo. Sono il tramite mediante cui “normalizziamo” la realtà, accettandola come “naturale”, anche quando naturale non è (Dematteis, 1985). Sono il mezzo che consolida il catalogo di categorie interpretative, date-per-scontate, ossia il “discorso” con cui diamo un senso al mondo (Dittmer, Bos, 2019; dell’Agnese, 2024). Non solo, i media possono avere un potere performativo nella costruzione di una “pace negativa” (intesa come assenza di conflitto) e più generalmente possano farsi promotori di una “pace territoriale” o strutturale grazie all’esperienza immersiva e di immedesimazione che offrono attraverso la loro originale dimensione narrativa. Come scrivono Dittmer e Bos (2019), i media possono creare una affective atmosphere, possono coinvolgere, indirizzando emozioni e sentimenti, possono costruire una narrativa nazionale, esaltando le azioni “eroiche” dei “nostri”, o indurre a una revisione critica. A questo proposito, restano esemplari le parole di Edward Said nell’introduzione a Palestina di Joe Sacco: I fumetti, nel loro implacabile portare in primo piano, sembravano dire qualcosa che non poteva essere detto diversamente, forse ciò che non era permesso dire o immaginare, sconfiggendo i normali procedimenti del pensiero, generalmente protetti, modellati e rimodellati da ogni specie di pressione pedagogica o ideologica (Said, 2002, pp. ix-x). È forse questa l’apertura che consentono i media? Quella di raccontare e “orientare attraverso sentimenti simpatetici”? È forse questo il punto su cui insistere? Il concetto di conscientization può essere il nostro perno: Conscientization is a pedagogical process defined by critical engagement with understandings of the world that leads people to actively reject established rationalizations of unequal power relations and oppression […] the goal of conscientization is for people to comprehend their existence ‘in and with the world’ (Carleton, 2014, p. 161). Diventa quindi necessario tenere insieme da un lato la specificità del racconto dei media sulla pace, la loro forza discorsiva, e dall’altro la loro capacità di intervenire sui corpi e sugli spazi attraverso linguaggi creativi e originali.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


