Il 1° marzo 1953 esce il n. 4 della rivista di settore “Cinema Nuovo”: al suo interno, un articolo intitolato Proposte per un film contiene un soggetto firmato dal critico cinematografico Renzo Renzi. Ispirato ai racconti di Renzo Biason, que- sto plot denominato L’Armata s’Agapò si ripromette di narrare il disonorevole comportamento delle truppe italiane in Grecia, gravato da barbare ingiustizie (come la fucilazione di ostaggi), atroci incompetenze (quali le ripetute decisioni di mandare la cavalleria al massacro) e meschine vessazioni (dal colossale giro di prostituzione alla requisizione coatta di beni alimentari). In base alla legislazione vigente, risalente al “Codice Rocco” di epoca mussoliniana, sia il redattore Renzi che il direttore responsabile della testata, Guido Aristarco, si ritrovano accusati di «vilipendio delle forze armate» e finiscono in carcere, attendendo di venir processati da un tribunale militare. La loro pesante condanna – 8 mesi a Renzi e 4 ad Aristarco – fa però scoppiare una vasta mobilitazione d’opinione che spinge infine le autorità giudiziarie ad annullare, dopo quaranta giorni nel penitenziario di Peschiera del Garda, la pena; preparando altresì il terreno per una modifica in chiave de-fascistizzante del codice penale: nel 1957, infatti, verrà revocata la giurisdizione della magistratura militare sui reati di vilipendio. Per curiosa concomitanza storica, Renzo Renzi e – con ben più alta esposizione mediatica – Guido Aristarco si ritrovano così a chiudere simbolicamente i postumi di quello stesso processo di demistificazione comunicazionale che li aveva visti sottoscrittori esattamente un decennio addietro e che aveva contribuito, fra le molteplici istanze di fronda e di critica eretica germinate sotto l’eccentrico cappello del dicastero Bottai all’Educazione Nazionale, a far cortocircuitare la pretesa monistica, esteriorizzante ed eugenetica della cultura fascista, proprio nella fase in cui il regime tentava lo scatto decisivo verso l’impianto totalitario. In effetti Aristarco – che sin dai primissimi anni Cinquanta si era avvicinato a posizioni d’estetica “lukácsiana” e che aveva fondato “Cinema Nuovo” nel dicembre 1952 dopo esser stato “dimissionato” da caporedattore di “Cinema” per aver difeso la pellicola (tardo)neorealista Umberto D. dagli obliqui strali del già potentissimo Giulio Andreotti, in quel frangente sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo – era stato nel gennaio 1943 curatore con Fernaldo Di Giammatteo di un numero monografico speciale che aveva clamorosamente abiurato, dall’interno della koiné littoria, la mitopoiesi integralista di un «cinema in camicia nera». In questo senso, il caso de L’Armata s’Agapò si pone come il completamento morale di una decennale campagna d’emancipazione della “settima arte” italiana – ben inteso, solo una delle molteplici, e spesso concorrenti, che ne hanno innervato la strutturazione teorica e compositiva lungo la prima metà del Novecento – volta a liberare l’autorialità registica ed attoriale dai catafalchi dell’e- pica e dell’escapismo (propri della produzione del Ventennio), mantenendola comunque capace di elaborare “politicamente” – senza riduzionismi veristi e cronache documentarie – la carne viva della coesistenza umana. Il fascicolo d’inizio 1943 s’intitolava evocativamente Invito alle immagini ed apparteneva alla rivista “Pattuglia”, «mensile di politica arti lettere del Guf di Forlì», che in virtù di tale peculiare radicamento editoriale poteva godere di una straordinaria risonanza su scala nazionale. Non determinata solo dal muovere dalla “città del duce” – peraltro priva di sede universitaria – ma anche e soprattutto dalla capacità unica di agglutinare sinergicamente il forgiarsi intellettuale della “migliore gioventù” della nazione fascista selezionata dai Littoriali della Cultura e dell’Arte (istituiti nell’aprile 1934).
Guzzo, D. (2019). L’approdo antifascista della meglio gioventù del regime: l’esperienza di “Pattuglia”. Roma : BraDypUS.
L’approdo antifascista della meglio gioventù del regime: l’esperienza di “Pattuglia”
Domenico Guzzo
2019
Abstract
Il 1° marzo 1953 esce il n. 4 della rivista di settore “Cinema Nuovo”: al suo interno, un articolo intitolato Proposte per un film contiene un soggetto firmato dal critico cinematografico Renzo Renzi. Ispirato ai racconti di Renzo Biason, que- sto plot denominato L’Armata s’Agapò si ripromette di narrare il disonorevole comportamento delle truppe italiane in Grecia, gravato da barbare ingiustizie (come la fucilazione di ostaggi), atroci incompetenze (quali le ripetute decisioni di mandare la cavalleria al massacro) e meschine vessazioni (dal colossale giro di prostituzione alla requisizione coatta di beni alimentari). In base alla legislazione vigente, risalente al “Codice Rocco” di epoca mussoliniana, sia il redattore Renzi che il direttore responsabile della testata, Guido Aristarco, si ritrovano accusati di «vilipendio delle forze armate» e finiscono in carcere, attendendo di venir processati da un tribunale militare. La loro pesante condanna – 8 mesi a Renzi e 4 ad Aristarco – fa però scoppiare una vasta mobilitazione d’opinione che spinge infine le autorità giudiziarie ad annullare, dopo quaranta giorni nel penitenziario di Peschiera del Garda, la pena; preparando altresì il terreno per una modifica in chiave de-fascistizzante del codice penale: nel 1957, infatti, verrà revocata la giurisdizione della magistratura militare sui reati di vilipendio. Per curiosa concomitanza storica, Renzo Renzi e – con ben più alta esposizione mediatica – Guido Aristarco si ritrovano così a chiudere simbolicamente i postumi di quello stesso processo di demistificazione comunicazionale che li aveva visti sottoscrittori esattamente un decennio addietro e che aveva contribuito, fra le molteplici istanze di fronda e di critica eretica germinate sotto l’eccentrico cappello del dicastero Bottai all’Educazione Nazionale, a far cortocircuitare la pretesa monistica, esteriorizzante ed eugenetica della cultura fascista, proprio nella fase in cui il regime tentava lo scatto decisivo verso l’impianto totalitario. In effetti Aristarco – che sin dai primissimi anni Cinquanta si era avvicinato a posizioni d’estetica “lukácsiana” e che aveva fondato “Cinema Nuovo” nel dicembre 1952 dopo esser stato “dimissionato” da caporedattore di “Cinema” per aver difeso la pellicola (tardo)neorealista Umberto D. dagli obliqui strali del già potentissimo Giulio Andreotti, in quel frangente sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo – era stato nel gennaio 1943 curatore con Fernaldo Di Giammatteo di un numero monografico speciale che aveva clamorosamente abiurato, dall’interno della koiné littoria, la mitopoiesi integralista di un «cinema in camicia nera». In questo senso, il caso de L’Armata s’Agapò si pone come il completamento morale di una decennale campagna d’emancipazione della “settima arte” italiana – ben inteso, solo una delle molteplici, e spesso concorrenti, che ne hanno innervato la strutturazione teorica e compositiva lungo la prima metà del Novecento – volta a liberare l’autorialità registica ed attoriale dai catafalchi dell’e- pica e dell’escapismo (propri della produzione del Ventennio), mantenendola comunque capace di elaborare “politicamente” – senza riduzionismi veristi e cronache documentarie – la carne viva della coesistenza umana. Il fascicolo d’inizio 1943 s’intitolava evocativamente Invito alle immagini ed apparteneva alla rivista “Pattuglia”, «mensile di politica arti lettere del Guf di Forlì», che in virtù di tale peculiare radicamento editoriale poteva godere di una straordinaria risonanza su scala nazionale. Non determinata solo dal muovere dalla “città del duce” – peraltro priva di sede universitaria – ma anche e soprattutto dalla capacità unica di agglutinare sinergicamente il forgiarsi intellettuale della “migliore gioventù” della nazione fascista selezionata dai Littoriali della Cultura e dell’Arte (istituiti nell’aprile 1934).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


