La situazione del comprensorio Forlivese-Cesenate nel primissimo dopoguerra esprime tutte le peculiarità della piazza romagnola rispetto all’emergere nazionale del fenomeno fascista. Vi si nota, innanzitutto, la particolare capacità di resilienza delle famiglie ideologico-partitiche prebelliche, che si associa alla contestuale difficoltà di radicamento dei fasci locali (fondati a Cesena e Forlì solo tra il febbraio e il marzo 1921, ma rimasti poi a lungo ancillari alle squadre ravennati e bolognesi). E questo a totale dispetto dell’origine forlivese di Benito Mussolini. Un secondo punto di distinzione è rappresentato dalla straordinaria tenuta dell’egemonia repubblicana sui centri maggiori della provincia: una supremazia che, pur tra mille contraddizioni, continuerà addirittura sino alle elezioni politiche del 1924. In siffatta situazione, il fascismo locale si ritroverà privo – almeno fino a quando, nel 1926, un decreto prefettizio scioglierà l’Associazione combattenti di Forlì e decreterà il confino milanese del suo presidente, il repubblicano Aldo Spallicci – di una effettiva legittimazione rispetto all’eredità della “trincea” e della “Vittoria”. Va detto, infine, come, nella vecchia provincia forlivese, l’innesco della violenza politica insistette solo tangenzialmente sulla “questione agraria” o sul mito della “ondata bolscevica”, concentrandosi piuttosto su una competizione armata di idee esclusive di Rivoluzione, volte a determinare istanze locali di un nuovo “potere costituente”, da erigere sulle rovine di un marcescente “ordine costituito” liberal-monarchico. In termini essenziali, si trattò dunque di uno scontro dai connotati fortemente figurativi, tra una Rivoluzione Rossa (nelle sue due accezioni, socialista e comunista) e una Rivoluzione Repubblicana; mentre sullo sfondo lontano, iniziavano a farsi sentire gli echi della sedicente Rivoluzione fascista. Da qui anche il dato eccezionale di una violenza politica di scarsa produttività materiale (il numero delle spedizioni armate, delle devastazioni, dei feriti e dei morti, tra il 1919 e il 1922, resta tra i più bassi del Paese, malgrado l’altissima politicizzazione del territorio e la diffusa propensione popolare alla rivolta e allo scontro fisico), che si caratterizza invece per l’elevata carica simbolico-dimostrativa, nel quadro della quale l’affermazione del principio ideologico prevalse sulla rideterminazione degli assetti socioeconomici.
Guzzo, D. (2022). Forlì e Cesena. Bologna : Edizioni Pendragon.
Forlì e Cesena
Domenico Guzzo
2022
Abstract
La situazione del comprensorio Forlivese-Cesenate nel primissimo dopoguerra esprime tutte le peculiarità della piazza romagnola rispetto all’emergere nazionale del fenomeno fascista. Vi si nota, innanzitutto, la particolare capacità di resilienza delle famiglie ideologico-partitiche prebelliche, che si associa alla contestuale difficoltà di radicamento dei fasci locali (fondati a Cesena e Forlì solo tra il febbraio e il marzo 1921, ma rimasti poi a lungo ancillari alle squadre ravennati e bolognesi). E questo a totale dispetto dell’origine forlivese di Benito Mussolini. Un secondo punto di distinzione è rappresentato dalla straordinaria tenuta dell’egemonia repubblicana sui centri maggiori della provincia: una supremazia che, pur tra mille contraddizioni, continuerà addirittura sino alle elezioni politiche del 1924. In siffatta situazione, il fascismo locale si ritroverà privo – almeno fino a quando, nel 1926, un decreto prefettizio scioglierà l’Associazione combattenti di Forlì e decreterà il confino milanese del suo presidente, il repubblicano Aldo Spallicci – di una effettiva legittimazione rispetto all’eredità della “trincea” e della “Vittoria”. Va detto, infine, come, nella vecchia provincia forlivese, l’innesco della violenza politica insistette solo tangenzialmente sulla “questione agraria” o sul mito della “ondata bolscevica”, concentrandosi piuttosto su una competizione armata di idee esclusive di Rivoluzione, volte a determinare istanze locali di un nuovo “potere costituente”, da erigere sulle rovine di un marcescente “ordine costituito” liberal-monarchico. In termini essenziali, si trattò dunque di uno scontro dai connotati fortemente figurativi, tra una Rivoluzione Rossa (nelle sue due accezioni, socialista e comunista) e una Rivoluzione Repubblicana; mentre sullo sfondo lontano, iniziavano a farsi sentire gli echi della sedicente Rivoluzione fascista. Da qui anche il dato eccezionale di una violenza politica di scarsa produttività materiale (il numero delle spedizioni armate, delle devastazioni, dei feriti e dei morti, tra il 1919 e il 1922, resta tra i più bassi del Paese, malgrado l’altissima politicizzazione del territorio e la diffusa propensione popolare alla rivolta e allo scontro fisico), che si caratterizza invece per l’elevata carica simbolico-dimostrativa, nel quadro della quale l’affermazione del principio ideologico prevalse sulla rideterminazione degli assetti socioeconomici.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


