Il processo di nazionalizzazione che ebbe luogo nell’Europa durante e al termine della Prima guerra mondiale si tradusse nei Paesi dominati dal fascismo anche in una esaltazione della guerra come esperienza sacra e rigeneratrice. Il combattente doveva restare l’uomo, ma alla donna furono affidati compiti particolari di natura morale per tradurre quella concezione nella famiglia e per spronare gli uomini al combattimento per la “nazione grande”. Nel corso della Seconda guerra mondiale e principalmente negli anni 1943-45, dal fascismo italiano si addebitò alle donne la responsabilità del sottrarsi degli uomini alla guerra e si giunse –in quella che può essere considerata una scala della costruzione del mito dell’esperienza della guerra – al suo stadio finale con l’esaltazione di due figure femminili, la madre spartana e l’ausiliaria. La prima, anziana, doveva con serenità offrire i suoi figli alla patria e trarre orgoglio dalla loro morte in guerra; la seconda, giovane, doveva sostituire gli uomini “vili” in tutti quei compiti bellici che esulavano dal combattimento. Le donne, come norma, non potevano infatti usare le armi, secondo la concezione tradizionale che voleva gli uomini al fronte e le donne a casa a sorreggere la famiglia, ma esse furono tratte a impegnarsi nella guerra e a far proprio il mito dell’esperienza della guerra per una finalità nazionalistica. Di fatto, la maggior parte delle italiane si sottrasse a quel mito e numerose aderirono alla Resistenza antifascista, così come diverse ausiliarie fecero uso delle armi contravvenendo al modello costruito per loro. Una analisi dell’estensione alle donne del mito dell’esperienza della guerra permette di comprendere il ruolo del fascismo e i suoi lasciti, nonché di arricchire di ulteriori contributi la scelta della Resistenza.

Il fascismo italiano e la femminilizzazione del mito dell’esperienza di guerra

GAGLIANI, DIANELLA
2004

Abstract

Il processo di nazionalizzazione che ebbe luogo nell’Europa durante e al termine della Prima guerra mondiale si tradusse nei Paesi dominati dal fascismo anche in una esaltazione della guerra come esperienza sacra e rigeneratrice. Il combattente doveva restare l’uomo, ma alla donna furono affidati compiti particolari di natura morale per tradurre quella concezione nella famiglia e per spronare gli uomini al combattimento per la “nazione grande”. Nel corso della Seconda guerra mondiale e principalmente negli anni 1943-45, dal fascismo italiano si addebitò alle donne la responsabilità del sottrarsi degli uomini alla guerra e si giunse –in quella che può essere considerata una scala della costruzione del mito dell’esperienza della guerra – al suo stadio finale con l’esaltazione di due figure femminili, la madre spartana e l’ausiliaria. La prima, anziana, doveva con serenità offrire i suoi figli alla patria e trarre orgoglio dalla loro morte in guerra; la seconda, giovane, doveva sostituire gli uomini “vili” in tutti quei compiti bellici che esulavano dal combattimento. Le donne, come norma, non potevano infatti usare le armi, secondo la concezione tradizionale che voleva gli uomini al fronte e le donne a casa a sorreggere la famiglia, ma esse furono tratte a impegnarsi nella guerra e a far proprio il mito dell’esperienza della guerra per una finalità nazionalistica. Di fatto, la maggior parte delle italiane si sottrasse a quel mito e numerose aderirono alla Resistenza antifascista, così come diverse ausiliarie fecero uso delle armi contravvenendo al modello costruito per loro. Una analisi dell’estensione alle donne del mito dell’esperienza della guerra permette di comprendere il ruolo del fascismo e i suoi lasciti, nonché di arricchire di ulteriori contributi la scelta della Resistenza.
2004
Il sacrificio
113
140
D. Gagliani
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