Divenuto in Occidente sinonimo di guerra santa, il termine jihâd ha in realtà una valenza tutt'altro che univoca. Il presente contributo, partendo dall'analisi della polivalenza semantica del termine, esamina le diverse interpretazioni che gli esegeti musulmani ne hanno dato nel corso dei secoli, al fine di spiegare le ragioni della odierna radicalizzazione del jihâd militare. Le opinioni dei diversi studiosi al riguardo divergono. Alcuni, come Asma Asfaruddin, ritengono che fu a partire dall’epoca omayyade (661-750) che si sentì la necessità di promuovere il jihâd militare presentandolo come un’attività meritoria, al fine di legittimare l’espansione del Califfato islamico iniziata dopo la morte del Profeta (632); altri, come David Cook, ritengono invece che il jihâd fu inteso in senso principalmente militare e interpretato in modo marcatamente aggressivo ed espansionistico sin dagli inizi. Un'indagine sulle fonti utilizzate dai due autori mostra però che essi basano le loro analisi su materiali differenti: Asfaruddin si concentra soprattutto sulla letteratura di tipo esegetico e sui detti profetici (ahâdîth), in particolare sui più antichi, che mette a confronto con quelli contenuti nelle più tarde raccolte canoniche, studiandone attentamente l’isnâd, senza prendere in considerazione i trattati storici e giuridici; Cook invece si basa soprattutto su questi ultimi e sulle raccolte canoniche dei detti profetici. Le due prospettive appaiono dunque sostanzialmente conciliabili: il grande edificio classico dell’Islam mostra nel suo insieme un jihâd inteso prevalentemente in senso militare, come osserva Cook, ma costruito lungo un arco di tempo che va dall’epoca omayyade a quella abbaside, e si forgiò, riorientandosi in un senso più o meno aggressivo, attraverso le vicende storiche e a seconda delle esigenze dei tempi.

Alle fonti del jihad: guerra santa o sforzo pacifico sulla via di Dio? / Ines Peta. - ELETTRONICO. - (2015), pp. 40-49.

Alle fonti del jihad: guerra santa o sforzo pacifico sulla via di Dio?

Ines Peta
2015

Abstract

Divenuto in Occidente sinonimo di guerra santa, il termine jihâd ha in realtà una valenza tutt'altro che univoca. Il presente contributo, partendo dall'analisi della polivalenza semantica del termine, esamina le diverse interpretazioni che gli esegeti musulmani ne hanno dato nel corso dei secoli, al fine di spiegare le ragioni della odierna radicalizzazione del jihâd militare. Le opinioni dei diversi studiosi al riguardo divergono. Alcuni, come Asma Asfaruddin, ritengono che fu a partire dall’epoca omayyade (661-750) che si sentì la necessità di promuovere il jihâd militare presentandolo come un’attività meritoria, al fine di legittimare l’espansione del Califfato islamico iniziata dopo la morte del Profeta (632); altri, come David Cook, ritengono invece che il jihâd fu inteso in senso principalmente militare e interpretato in modo marcatamente aggressivo ed espansionistico sin dagli inizi. Un'indagine sulle fonti utilizzate dai due autori mostra però che essi basano le loro analisi su materiali differenti: Asfaruddin si concentra soprattutto sulla letteratura di tipo esegetico e sui detti profetici (ahâdîth), in particolare sui più antichi, che mette a confronto con quelli contenuti nelle più tarde raccolte canoniche, studiandone attentamente l’isnâd, senza prendere in considerazione i trattati storici e giuridici; Cook invece si basa soprattutto su questi ultimi e sulle raccolte canoniche dei detti profetici. Le due prospettive appaiono dunque sostanzialmente conciliabili: il grande edificio classico dell’Islam mostra nel suo insieme un jihâd inteso prevalentemente in senso militare, come osserva Cook, ma costruito lungo un arco di tempo che va dall’epoca omayyade a quella abbaside, e si forgiò, riorientandosi in un senso più o meno aggressivo, attraverso le vicende storiche e a seconda delle esigenze dei tempi.
2015
La galassia fondamentalista tra jihād armato e partecipazione politica
40
49
Alle fonti del jihad: guerra santa o sforzo pacifico sulla via di Dio? / Ines Peta. - ELETTRONICO. - (2015), pp. 40-49.
Ines Peta
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