Il presupposto che il non pianto rappresenti una sorta di felicità è comunemente accettato, come quello che l’amore rappresenti una panacea per tutti i mali. Tuttavia, in primis, perché demonizzare il pianto come manifestazione di malessere del bambino? Non è forse vagendo che il neonato annuncia la sua venuta nel mondo? Non è forse attraverso le modulazioni del pianto, sapientemente interpretate dalla mamma, che il bimbo esprime le proprie emozioni, esigenze affettive e parentali? Il pianto, magico linguaggio dalle nobili e sottili sfumature: si piange di dolore, è vero, ma anche di gioia, e di commozione. Stendhal in “De l’amour” (1922) afferma in una sintesi memorabile che “les larmes sont l’extreme sourire”. Il bimbo impara presto a conoscere il caldo piacere del conforto che succede al pianto, il sonno ristoratore dopo un pianto struggente, la quiete dopo la tempesta, l’arcobaleno dopo il temporale … Pianto e riso relazionano il bimbo con l’altro e con il mondo circostante. In alcune gravi forme di autismo il bambino affetto non piange, tutt’al più urla, ma non piange, mancando anche in questo di una capacità fisiologica di comunicare col mondo esterno le proprie emozioni. Certo dobbiamo evitare che l’origine del pianto sia traumatica, dolorosa, umiliante: questo è un categorico dovere dell’adulto responsabile. Insegniamo quindi al bimbo ad essere consapevole delle sue lacrime, che non se ne vergogni, ma che piuttosto ne impari il valore intrinseco (le lacrime non sono un bene da sprecare!). In un ottica darwiniano-evoluzionistica il bambino che nei tempi antichi, specie in periodi di carestia, piangeva meno era destinato a sopravvivere di più perché disperdeva meno sodio (n.b.: le lacrime sono salate per l’alto contenuto in sodio) . D’altronde, il bimbo che piange sa ridere, è il bimbo che interagisce con se stesso e con le situazioni circostanti. Amare un bimbo non consiste nell’annullarne ogni motivo di pianto (peraltro impresa umanamente impossibile), pena il rischio di crescere un essere superficiale ed emotivamente monotono. D’accordo con John Vence Cheney, ci piace credere che l’anima non avrà arcobaleni se gli occhi non avranno lacrime (Tears). L’amore non è una cura, o meglio l’amore è proprio come un farmaco: ha una sua dose terapeutica, una sua dose tossica, effetti desiderati ed effetti collaterali. Da un punto di vista medico, c’è anche chi sostiene che l’amore abbia una sua farmacodinamica (= un meccanismo d’azione proprio e specifico) ed una farmacocinetica (= includente tutti quei processi che vanno dalla via di somministrazione al metabolismo, in questo caso dal tipo di trasmissione dell’amore alla sua interpretazione), tanto irrazionali da poter essere percepiti al meglio proprio dal bambino ancora relativamente poco condizionato dalla società. Infatti una dose di amore “eccessivo”, quello che porta i genitori ad impedire al bambino di piangere oggi, lo porterà necessariamente a piangere un domani, quando dovrà scontrarsi con l’aridità della società, e davanti a quel pianto quasi sconosciuto si troverà disarmato, spaventato dalla nuova conoscenza di una forza a lui nascosta. Tutte le discipline orientali parlano di crescita spirituale come un processo che forzatamente passa dalla sofferenza (ma mai dall’umiliazione!). Un pensiero analogo, anche se espresso in termini diversi, si può ritrovare anche nella religione cattolica.

La fame d’amore: un bambino che sta bene non piange.

CICERO, ARRIGO FRANCESCO GIUSEPPE;GADDI, ANTONIO VITTORINO
2008

Abstract

Il presupposto che il non pianto rappresenti una sorta di felicità è comunemente accettato, come quello che l’amore rappresenti una panacea per tutti i mali. Tuttavia, in primis, perché demonizzare il pianto come manifestazione di malessere del bambino? Non è forse vagendo che il neonato annuncia la sua venuta nel mondo? Non è forse attraverso le modulazioni del pianto, sapientemente interpretate dalla mamma, che il bimbo esprime le proprie emozioni, esigenze affettive e parentali? Il pianto, magico linguaggio dalle nobili e sottili sfumature: si piange di dolore, è vero, ma anche di gioia, e di commozione. Stendhal in “De l’amour” (1922) afferma in una sintesi memorabile che “les larmes sont l’extreme sourire”. Il bimbo impara presto a conoscere il caldo piacere del conforto che succede al pianto, il sonno ristoratore dopo un pianto struggente, la quiete dopo la tempesta, l’arcobaleno dopo il temporale … Pianto e riso relazionano il bimbo con l’altro e con il mondo circostante. In alcune gravi forme di autismo il bambino affetto non piange, tutt’al più urla, ma non piange, mancando anche in questo di una capacità fisiologica di comunicare col mondo esterno le proprie emozioni. Certo dobbiamo evitare che l’origine del pianto sia traumatica, dolorosa, umiliante: questo è un categorico dovere dell’adulto responsabile. Insegniamo quindi al bimbo ad essere consapevole delle sue lacrime, che non se ne vergogni, ma che piuttosto ne impari il valore intrinseco (le lacrime non sono un bene da sprecare!). In un ottica darwiniano-evoluzionistica il bambino che nei tempi antichi, specie in periodi di carestia, piangeva meno era destinato a sopravvivere di più perché disperdeva meno sodio (n.b.: le lacrime sono salate per l’alto contenuto in sodio) . D’altronde, il bimbo che piange sa ridere, è il bimbo che interagisce con se stesso e con le situazioni circostanti. Amare un bimbo non consiste nell’annullarne ogni motivo di pianto (peraltro impresa umanamente impossibile), pena il rischio di crescere un essere superficiale ed emotivamente monotono. D’accordo con John Vence Cheney, ci piace credere che l’anima non avrà arcobaleni se gli occhi non avranno lacrime (Tears). L’amore non è una cura, o meglio l’amore è proprio come un farmaco: ha una sua dose terapeutica, una sua dose tossica, effetti desiderati ed effetti collaterali. Da un punto di vista medico, c’è anche chi sostiene che l’amore abbia una sua farmacodinamica (= un meccanismo d’azione proprio e specifico) ed una farmacocinetica (= includente tutti quei processi che vanno dalla via di somministrazione al metabolismo, in questo caso dal tipo di trasmissione dell’amore alla sua interpretazione), tanto irrazionali da poter essere percepiti al meglio proprio dal bambino ancora relativamente poco condizionato dalla società. Infatti una dose di amore “eccessivo”, quello che porta i genitori ad impedire al bambino di piangere oggi, lo porterà necessariamente a piangere un domani, quando dovrà scontrarsi con l’aridità della società, e davanti a quel pianto quasi sconosciuto si troverà disarmato, spaventato dalla nuova conoscenza di una forza a lui nascosta. Tutte le discipline orientali parlano di crescita spirituale come un processo che forzatamente passa dalla sofferenza (ma mai dall’umiliazione!). Un pensiero analogo, anche se espresso in termini diversi, si può ritrovare anche nella religione cattolica.
2008
L’arte di crescere – Adolescenti maturi o adulti bambini?
185
186
Cicero AFG; Gaddi AV
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/68598
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