Per sua stessa natura, la megastruttura si definisce per mezzo di un grande telaio ampliabile illimitatamente nel quale si concentrano determinate funzioni. Ospedali, università, fiere, se non intere città come le arcologie di Paolo Soleri, sono state risolte ricorrendo all’audacia delle proposte megastrutturali. In termini generali la megastruttura si compone di uno scheletro principale –una gabbia, una piastra, un nastro– che costituisce il sistema fisso della sua massa formale, di una struttura secondaria “specializzata” di tipo mobile –capsule, cellule, blocchi– e di un terzo sistema dinamico, rappresentato dagli assi trasportistici sovrapposti su più livelli –autostrade, metropolitane, percorsi pedonali. Attraverso l’impianto di base, la megastruttura si presta per essere lo strumento di intervento ordinatore, pensato per gestire e regolarizzare la crescita caotica e incontrollata della città. La megastruttura è “l’esecutivo dell’utopia” e dell’architettura radicale militante. E’ la soluzione compositiva prescelta dall’architettura razionale impegnata a dotare la città di nuove attrezzature pubbliche. Si manifesta come mégastructures trouvées negli avanzati prodotti di ingegneria come le piattaforme di estrazione petrolifera, le dighe, gli hub infrastrutturali, le navicelle satellitari. La crisi terminale del pensiero megastrutturale è annunciata nel 1973 da Reyner Banham in un ciclo di conferenze tenute alla Facoltà di Architettura di Napoli, significativamente intitolato La Megastruttura è morta – e quindi essa si trasferisce nella Storia dell’Architettura: abbandonata e respinta dai suoi stessi padri fondatori, la megastruttura esaurisce il proprio impeto autodistruggendosi. Tuttavia questa decadenza finale è accompagnata da una serie di progetti esemplari, elaborati agli inizi del decennio. Sul fronte visionario, il rifiuto della componente pratica nell’uso delle megaforme accelera il suo deterioramento fisico. La piattaforma distesa da Elia Zenghelis e Rem Koolhaas su Londra nel progetto Exodus segna il culmine dell’avanzata delle superarchitetture. Il “terribile paesaggio” del recinto nel quale sono rinchiusi i prigionieri volontari dell’architettura è disegnato nello stesso anno (1972) in cui dall’altra parte dell’oceano, Robert Venturi pubblica Learning from Las Vegas, libro per eccellenza antimegastrutturale, che apre alla rilettura della dimensione urbana della città esistente. All’enclave surrealista di Zenghelis e Koolhaas, fa seguito in Italia una scia di lavori di impronta antiaccademica, disinteressati all’ambizione della realizzazione. I giochi delle megastrutture “pop” di Ettore Sottsass raffigurate nel racconto Il pianeta come festival, l’architettura interplanetaria di Superstudio, la struttura urbana monomorfa di Archizoom, se intenzionalmente esprimono una critica anarchica agli strumenti conoscitivi ed operativi della pianificazione corrente, di fatto concepiscono il grande sistema della megastruttura come pura immagine, svuotata del significato originario che si sforza di intenderla quale esito specificatamente architettonico e possibilità concreta permessa dalle moderne ipertecnologie. Altrettanto circoscritta a precisi casi limitati è l’enfasi progettuale degli oggetti colossali ideati per rispondere a incarichi ufficiali. Il centro direzionale di Bologna sviluppato da Kenzo Tange, il quartiere Zen per 12.000 abitanti di Vittorio Gregotti, i progetti presentati al concorso per l’Università di Firenze (in particolare la versione italiana di plug-in city formulata da Leonardo Savioli), il Corviale, le stecche dell’Università della Calabria e il Centre Pompidou chiudono l’età megastrutturale sancendo l’ultimo sussulto totalizzante delle ideologie del Movimento Moderno. L’inevitabile conclusione della ricerca megastrutturale era già scritta nel suo destino e coincide, per esserne contemporaneamente anche l’effetto, con la riscoperta dello spazio ineffabile della tradizione, che dominerà ampiament...

Megastruttura

AGNOLETTO, MATTEO
2007

Abstract

Per sua stessa natura, la megastruttura si definisce per mezzo di un grande telaio ampliabile illimitatamente nel quale si concentrano determinate funzioni. Ospedali, università, fiere, se non intere città come le arcologie di Paolo Soleri, sono state risolte ricorrendo all’audacia delle proposte megastrutturali. In termini generali la megastruttura si compone di uno scheletro principale –una gabbia, una piastra, un nastro– che costituisce il sistema fisso della sua massa formale, di una struttura secondaria “specializzata” di tipo mobile –capsule, cellule, blocchi– e di un terzo sistema dinamico, rappresentato dagli assi trasportistici sovrapposti su più livelli –autostrade, metropolitane, percorsi pedonali. Attraverso l’impianto di base, la megastruttura si presta per essere lo strumento di intervento ordinatore, pensato per gestire e regolarizzare la crescita caotica e incontrollata della città. La megastruttura è “l’esecutivo dell’utopia” e dell’architettura radicale militante. E’ la soluzione compositiva prescelta dall’architettura razionale impegnata a dotare la città di nuove attrezzature pubbliche. Si manifesta come mégastructures trouvées negli avanzati prodotti di ingegneria come le piattaforme di estrazione petrolifera, le dighe, gli hub infrastrutturali, le navicelle satellitari. La crisi terminale del pensiero megastrutturale è annunciata nel 1973 da Reyner Banham in un ciclo di conferenze tenute alla Facoltà di Architettura di Napoli, significativamente intitolato La Megastruttura è morta – e quindi essa si trasferisce nella Storia dell’Architettura: abbandonata e respinta dai suoi stessi padri fondatori, la megastruttura esaurisce il proprio impeto autodistruggendosi. Tuttavia questa decadenza finale è accompagnata da una serie di progetti esemplari, elaborati agli inizi del decennio. Sul fronte visionario, il rifiuto della componente pratica nell’uso delle megaforme accelera il suo deterioramento fisico. La piattaforma distesa da Elia Zenghelis e Rem Koolhaas su Londra nel progetto Exodus segna il culmine dell’avanzata delle superarchitetture. Il “terribile paesaggio” del recinto nel quale sono rinchiusi i prigionieri volontari dell’architettura è disegnato nello stesso anno (1972) in cui dall’altra parte dell’oceano, Robert Venturi pubblica Learning from Las Vegas, libro per eccellenza antimegastrutturale, che apre alla rilettura della dimensione urbana della città esistente. All’enclave surrealista di Zenghelis e Koolhaas, fa seguito in Italia una scia di lavori di impronta antiaccademica, disinteressati all’ambizione della realizzazione. I giochi delle megastrutture “pop” di Ettore Sottsass raffigurate nel racconto Il pianeta come festival, l’architettura interplanetaria di Superstudio, la struttura urbana monomorfa di Archizoom, se intenzionalmente esprimono una critica anarchica agli strumenti conoscitivi ed operativi della pianificazione corrente, di fatto concepiscono il grande sistema della megastruttura come pura immagine, svuotata del significato originario che si sforza di intenderla quale esito specificatamente architettonico e possibilità concreta permessa dalle moderne ipertecnologie. Altrettanto circoscritta a precisi casi limitati è l’enfasi progettuale degli oggetti colossali ideati per rispondere a incarichi ufficiali. Il centro direzionale di Bologna sviluppato da Kenzo Tange, il quartiere Zen per 12.000 abitanti di Vittorio Gregotti, i progetti presentati al concorso per l’Università di Firenze (in particolare la versione italiana di plug-in city formulata da Leonardo Savioli), il Corviale, le stecche dell’Università della Calabria e il Centre Pompidou chiudono l’età megastrutturale sancendo l’ultimo sussulto totalizzante delle ideologie del Movimento Moderno. L’inevitabile conclusione della ricerca megastrutturale era già scritta nel suo destino e coincide, per esserne contemporaneamente anche l’effetto, con la riscoperta dello spazio ineffabile della tradizione, che dominerà ampiament...
2007
Anni Settanta. Il decennio lungo del secolo breve
298
298
M. Agnoletto
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