I saggi pubblicati in questo volume possono esser suddivisi idealmente in tre gruppi: etnografie e etnologie di antropologi e studiosi africanisti, esperienze di messe in scena come registi o performer, saggi di antropologia visuale. Nel primo gruppo di saggi, Stefano Allovio (Un assolo lungo ottant’anni. Riflessioni antropologiche a partire dalle danze di corte mangbetu) rileva come nelle corti dei capi mangbetu (Congo nord-orientale) la danza fosse considerata una espressione di potere e di abilità (nakira). A partire dai resoconti dei viaggiatori di fine Ottocento le testimonianze, anche visive, raccontano di capi che si esibiscono in assoli di danza, che esprimono i mutamenti coloniali e le nuove logiche di disciplinamento dei corpi in un contesto di propaganda e di patrimonializzazione delle forme folkloriche a uso della colonia. Cristiana Natali (Dal primitivismo all’autenticità. Le danze africane tra vecchi e nuovi stereotipi) mette in luce come l’attribuzione alle danze africane di un carattere di primitività rappresenti da un lato l’eredità di una concezione evoluzionista mai del tutto tramontata, dall’altro il risultato dell’applicazione di nuovi stereotipi che hanno tradotto in termini positivi qualificazioni precedentemente negative. Cesare Poppi (Fra Kpaana e Janz: dinamiche coreografiche nel Nord-Ovest del Ghana) esamina le ragioni dei profondi cambiamenti negli stili e nelle occasioni di danza che si sono registrati fra le etnie di lingua Gur-Grushi del Nord-Ovest del Ghana negli ultimi trent’anni, con particolare interesse sulla considerazione della nozione di danza sacra e di danza profana. Laura Budriesi (Il wukabi Seifu allo specchio di padre Abba Gebre Medhn. Una testimonianza su danza e musica azmari) racconta la sua esperienza di campo in Etiopia – Gondar (regione Amhara) per studiare i riti di possessione, ai quali ha partecipato assieme al bale-wukabi Abba (Padre) Gebre Medhn. Il suo corpo-voce, la sua gestualità rituale, i suoi oggetti di culto, i suoi «costumi» sono strettamente connessi agli spiriti che controlla: Demses, fuoco distruttore, e Chengher, spirito guerriero e mussulmano, che raccoglie l’eredità degli antichi wukabi di Gondar e rinvia alle ricerche sui posseduti studiati, nella stessa città, da Michel Leiris nei primi anni Trenta del secolo scorso. Linda Pasina (La platea e il cerchio) narra come in Senegal la danza rappresenti ancora oggi un aspetto fondante della vita sociale della comunità: ogni cerimonia ha come culmine il cerchio, in cui i balli sono animati dai griots, antichi padroni del ritmo e della parola. Il cerchio delle danze rappresenta un non-luogo dove ogni tabù cade, dove può emergere ogni emozione che nella vita reale non è concessa: non è un caso che le vere padrone del cerchio siano le donne. Nel secondo gruppo di saggi, Katina Genero (Danza africana: l’arte di presentificare), partendo dalla sua esperienza di danzatrice, evidenzia come i vocaboli Parola-Ritmo-Danza in tutta l’area africana siano in stretta relazione, per non dire inscindibili, e quasi sempre vengano designati con un solo vocabolo, che li intreccia inesorabilmente: in occasione di una festa, di un rito di iniziazione o di una cerimonia liturgica, l’insieme agisce come una forza unica che vivifica, rivitalizza, celebra e agisce, portando nel presente le componenti del pluralismo filosofico africano. Andrea Paolucci (L’Escale 32. Diario di bordo italo-tunisino tra rap e Händel. Un viaggio iniziato nei centri sociali della periferia di Tunisi e terminato con uno spettacolo ai piedi del Sahara. Passando da Lampedusa e San Lazzaro di Savena - Bologna): racconto di diciotto mesi di lavoro consumati a realizzare due distinti progetti tra le due sponde del Mediterraneo, due percorsi di ricerca teatrale nati dall’incontro di attori, registi e drammaturghi del Teatro dell’Argine con attori, registi e drammaturghi della compagnia tunisina Kŭn Productions. Marco Martinelli (I sogni di Mandiaye, griot per vocazione): un omaggio a Mandiaye N’Diaye per i 25 anni della «colonia africana» del Teatro delle Albe, accompagnato da una riflessione sui fondamenti della teatralità senegalese, e cioè la narrazione del griot e il cerchio del sabàr. Pietro Floridia (La danza come pratica liminale) riflette sull’incontro tra richiedenti asilo africani e italiani che partecipano ai laboratori organizzati dai Cantieri Meticci nell’ambito di laboratori teatrali organizzati all’interno dei centri di accoglienza. Si evidenziano due situazioni: per gli Africani, il centro di accoglienza rappresenta la loro conoscenza dell’Italia, per gli Italiani è la prima volta che entrano in un centro di accoglienza, che conoscono persone sbarcate sulle coste italiane da poco, ma è anche la prima volta, in molti casi, che fanno teatro, e il primo contatto è danzare insieme. Nel terzo gruppo di saggi, Nico Staiti e Silvia Bruni (Posseduti dal jinn del cinema: filmare le danze di possessione in Marocco) presentano il loro lavoro di campo in Kosovo e in Marocco utilizzando apparecchiature di ripresa sia fotografiche che video, lavoro che ha prodotto libri di fotografie e documentari, nonché è servito principalmente a orientare le relazioni tra i ricercatori e gli attori delle vicende indagate, coltivate nell’arco di anni o di decenni. Davide Turrini (Africa questa [s]conosciuta. Ritualità del «continente nero» secondo i «mondo-movie») nel suo saggio tratta della rappresentazione realistica e sensazionalistica dell’esotismo retrogrado e ancestrale, continuamente confrontato con i cascami e le estremizzazioni dell’Occidente, nel filone cinematografico che è iniziato con i mockumentary di Gualtiero Jacopetti (Mondo cane, Mondo cane 2, Africa Addio) e nel documentario Ultime grida dalla savana. Enrico Masi (On Visual Anthropology. Sull’antropologia visuale) propone il conflitto spirituale tra la Chiesa Pentecostale Ghanese di Hackney e la Chiesa Profetica Congolese di Edmonton, documentato in un film girato nel tessuto urbano londinese. Il film illustra il modo in cui le chiese africane della diaspora stiano riconfigurando la dialettica fra la marginalità/centralità, invisibilità/visibilità in una «città globale» come Londra. Giovanni Azzaroni (Jean Rouch ovvero Un antropologo racconta con la cinepresa) affronta i problemi relativi alla memoria cinematografica, che può rappresentare un formidabile strumento di conservazione della memoria etnica.

DANZARE L'AFRICA OGGI. Eredità culturali, trasformazioni, nuovi immaginari / cristiana natali, laura budriesi, giovanni azzaroni. - ELETTRONICO. - 9:(2018), pp. 1-244.

DANZARE L'AFRICA OGGI. Eredità culturali, trasformazioni, nuovi immaginari

cristiana natali;laura budriesi;giovanni azzaroni
2018

Abstract

I saggi pubblicati in questo volume possono esser suddivisi idealmente in tre gruppi: etnografie e etnologie di antropologi e studiosi africanisti, esperienze di messe in scena come registi o performer, saggi di antropologia visuale. Nel primo gruppo di saggi, Stefano Allovio (Un assolo lungo ottant’anni. Riflessioni antropologiche a partire dalle danze di corte mangbetu) rileva come nelle corti dei capi mangbetu (Congo nord-orientale) la danza fosse considerata una espressione di potere e di abilità (nakira). A partire dai resoconti dei viaggiatori di fine Ottocento le testimonianze, anche visive, raccontano di capi che si esibiscono in assoli di danza, che esprimono i mutamenti coloniali e le nuove logiche di disciplinamento dei corpi in un contesto di propaganda e di patrimonializzazione delle forme folkloriche a uso della colonia. Cristiana Natali (Dal primitivismo all’autenticità. Le danze africane tra vecchi e nuovi stereotipi) mette in luce come l’attribuzione alle danze africane di un carattere di primitività rappresenti da un lato l’eredità di una concezione evoluzionista mai del tutto tramontata, dall’altro il risultato dell’applicazione di nuovi stereotipi che hanno tradotto in termini positivi qualificazioni precedentemente negative. Cesare Poppi (Fra Kpaana e Janz: dinamiche coreografiche nel Nord-Ovest del Ghana) esamina le ragioni dei profondi cambiamenti negli stili e nelle occasioni di danza che si sono registrati fra le etnie di lingua Gur-Grushi del Nord-Ovest del Ghana negli ultimi trent’anni, con particolare interesse sulla considerazione della nozione di danza sacra e di danza profana. Laura Budriesi (Il wukabi Seifu allo specchio di padre Abba Gebre Medhn. Una testimonianza su danza e musica azmari) racconta la sua esperienza di campo in Etiopia – Gondar (regione Amhara) per studiare i riti di possessione, ai quali ha partecipato assieme al bale-wukabi Abba (Padre) Gebre Medhn. Il suo corpo-voce, la sua gestualità rituale, i suoi oggetti di culto, i suoi «costumi» sono strettamente connessi agli spiriti che controlla: Demses, fuoco distruttore, e Chengher, spirito guerriero e mussulmano, che raccoglie l’eredità degli antichi wukabi di Gondar e rinvia alle ricerche sui posseduti studiati, nella stessa città, da Michel Leiris nei primi anni Trenta del secolo scorso. Linda Pasina (La platea e il cerchio) narra come in Senegal la danza rappresenti ancora oggi un aspetto fondante della vita sociale della comunità: ogni cerimonia ha come culmine il cerchio, in cui i balli sono animati dai griots, antichi padroni del ritmo e della parola. Il cerchio delle danze rappresenta un non-luogo dove ogni tabù cade, dove può emergere ogni emozione che nella vita reale non è concessa: non è un caso che le vere padrone del cerchio siano le donne. Nel secondo gruppo di saggi, Katina Genero (Danza africana: l’arte di presentificare), partendo dalla sua esperienza di danzatrice, evidenzia come i vocaboli Parola-Ritmo-Danza in tutta l’area africana siano in stretta relazione, per non dire inscindibili, e quasi sempre vengano designati con un solo vocabolo, che li intreccia inesorabilmente: in occasione di una festa, di un rito di iniziazione o di una cerimonia liturgica, l’insieme agisce come una forza unica che vivifica, rivitalizza, celebra e agisce, portando nel presente le componenti del pluralismo filosofico africano. Andrea Paolucci (L’Escale 32. Diario di bordo italo-tunisino tra rap e Händel. Un viaggio iniziato nei centri sociali della periferia di Tunisi e terminato con uno spettacolo ai piedi del Sahara. Passando da Lampedusa e San Lazzaro di Savena - Bologna): racconto di diciotto mesi di lavoro consumati a realizzare due distinti progetti tra le due sponde del Mediterraneo, due percorsi di ricerca teatrale nati dall’incontro di attori, registi e drammaturghi del Teatro dell’Argine con attori, registi e drammaturghi della compagnia tunisina Kŭn Productions. Marco Martinelli (I sogni di Mandiaye, griot per vocazione): un omaggio a Mandiaye N’Diaye per i 25 anni della «colonia africana» del Teatro delle Albe, accompagnato da una riflessione sui fondamenti della teatralità senegalese, e cioè la narrazione del griot e il cerchio del sabàr. Pietro Floridia (La danza come pratica liminale) riflette sull’incontro tra richiedenti asilo africani e italiani che partecipano ai laboratori organizzati dai Cantieri Meticci nell’ambito di laboratori teatrali organizzati all’interno dei centri di accoglienza. Si evidenziano due situazioni: per gli Africani, il centro di accoglienza rappresenta la loro conoscenza dell’Italia, per gli Italiani è la prima volta che entrano in un centro di accoglienza, che conoscono persone sbarcate sulle coste italiane da poco, ma è anche la prima volta, in molti casi, che fanno teatro, e il primo contatto è danzare insieme. Nel terzo gruppo di saggi, Nico Staiti e Silvia Bruni (Posseduti dal jinn del cinema: filmare le danze di possessione in Marocco) presentano il loro lavoro di campo in Kosovo e in Marocco utilizzando apparecchiature di ripresa sia fotografiche che video, lavoro che ha prodotto libri di fotografie e documentari, nonché è servito principalmente a orientare le relazioni tra i ricercatori e gli attori delle vicende indagate, coltivate nell’arco di anni o di decenni. Davide Turrini (Africa questa [s]conosciuta. Ritualità del «continente nero» secondo i «mondo-movie») nel suo saggio tratta della rappresentazione realistica e sensazionalistica dell’esotismo retrogrado e ancestrale, continuamente confrontato con i cascami e le estremizzazioni dell’Occidente, nel filone cinematografico che è iniziato con i mockumentary di Gualtiero Jacopetti (Mondo cane, Mondo cane 2, Africa Addio) e nel documentario Ultime grida dalla savana. Enrico Masi (On Visual Anthropology. Sull’antropologia visuale) propone il conflitto spirituale tra la Chiesa Pentecostale Ghanese di Hackney e la Chiesa Profetica Congolese di Edmonton, documentato in un film girato nel tessuto urbano londinese. Il film illustra il modo in cui le chiese africane della diaspora stiano riconfigurando la dialettica fra la marginalità/centralità, invisibilità/visibilità in una «città globale» come Londra. Giovanni Azzaroni (Jean Rouch ovvero Un antropologo racconta con la cinepresa) affronta i problemi relativi alla memoria cinematografica, che può rappresentare un formidabile strumento di conservazione della memoria etnica.
2018
244
9788854970052
DANZARE L'AFRICA OGGI. Eredità culturali, trasformazioni, nuovi immaginari / cristiana natali, laura budriesi, giovanni azzaroni. - ELETTRONICO. - 9:(2018), pp. 1-244.
cristiana natali, laura budriesi, giovanni azzaroni
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/635100
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