Nella cultura musulmana in generale, al di fuori del matrimonio, ogni relazione amorosa è ritenuta peccaminosa e, dal punto di vista di mistici come ‘Attār (m. 1230 ca.) o Ansārī (m. 1088), costituisce nella migliore delle ipotesi una grave distrazione dalla via di Dio, l’unico Amato degno di questo nome. Per questi due mistici in effetti l’amore è al più una tappa, ma non la meta di un lungo cammino - scandito da decine di gradi o stazioni di defatigante ascesi; la meta diventa piuttosto il fanā’, ovvero il finale “eroico” autoannientamento del sufi in Dio. Invece, per altri autori come Ahmad Ghazālī (m. 1126) o per Rūmī (m. 1273), l’amore umano a certe condizioni può essere una via brevis nella ricerca del Divino e arrivare a costituire persino il fulcro della esperienza spirituale. Partendo da una riflessione sul noto hadīth “Dio è bello e ama la bellezza”, ogni “ȇtre de beauté” (Corbin) può diventare agli occhi del suo puro amante una compiuta teofania, un “testimone” (shāhed) unico della divina bellezza, e guidarlo nel sentiero che dall’eros umano conduce sino all’estasi unitiva.
“Allah è bello e ama la bellezza”. La via dell’amore e la via del fanā’ nel sufismo persiano tra il secolo XI e XIII
Carlo Saccone
2017
Abstract
Nella cultura musulmana in generale, al di fuori del matrimonio, ogni relazione amorosa è ritenuta peccaminosa e, dal punto di vista di mistici come ‘Attār (m. 1230 ca.) o Ansārī (m. 1088), costituisce nella migliore delle ipotesi una grave distrazione dalla via di Dio, l’unico Amato degno di questo nome. Per questi due mistici in effetti l’amore è al più una tappa, ma non la meta di un lungo cammino - scandito da decine di gradi o stazioni di defatigante ascesi; la meta diventa piuttosto il fanā’, ovvero il finale “eroico” autoannientamento del sufi in Dio. Invece, per altri autori come Ahmad Ghazālī (m. 1126) o per Rūmī (m. 1273), l’amore umano a certe condizioni può essere una via brevis nella ricerca del Divino e arrivare a costituire persino il fulcro della esperienza spirituale. Partendo da una riflessione sul noto hadīth “Dio è bello e ama la bellezza”, ogni “ȇtre de beauté” (Corbin) può diventare agli occhi del suo puro amante una compiuta teofania, un “testimone” (shāhed) unico della divina bellezza, e guidarlo nel sentiero che dall’eros umano conduce sino all’estasi unitiva.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.