Il 4 dicembre 2016 gli elettori italiani sono stati chiamati, per la terza volta negli ultimi 15 anni, a esprimersi su una proposta di riforma in materia costituzionale. L’istituto referendario era stato introdotto dai padri costituenti al fine di garantire la tutela della carta costituzionale e consentire ai cittadini di opporsi a modifiche del testo ritenute peggiorative. La logica originaria è dunque quella di consentire alle forze che non hanno appoggiato la riforma di opporvisi attraverso l’appello agli elettori. Proprio in virtù di questa funzione di garanzia, fu previsto che per questo tipo di referendum non fosse richiesto alcun quorum, come invece accade per i referendum abrogativi − il cui esito è valido solo nel caso in cui vi sia la partecipazione di almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto. La scelta di non estendere tale previsione ai referendum in materia costituzionale era volta, infatti, a rafforzare la posizione dei cittadini che si oppongono alla modifica dello status quo, impedendo che la non partecipazione di coloro che la appoggiano o sono indifferenti renda nulla la loro mobilitazione. L’assenza del quorum avrebbe dovuto, in linea teorica, rendere meno rilevante il tema dell’affluenza in occasione del referendum sulla riforma Renzi-Boschi. In pratica, però, una serie di elementi hanno fatto sì che esso risultasse cruciale nel corso di tutta la campagna referendaria. Va innanzitutto considerato che, a differenza di quanto ipotizzato dai padri costituenti, in questo caso la richiesta del passaggio referendario è stata avanzata dalle stesse forze di maggioranza che avevano promosso la revisione della Carta. Il governo ha dunque voluto attribuire all’esito del referendum un significato «confermativo» rispetto al contenuto della riforma. Tuttavia, per volontà esplicita dello stesso premier Matteo Renzi – pur parzialmente ritrattata nell’ultima fase della campagna referendaria – tale significato si è presto esteso all’operato complessivo dell’esecutivo in carica, conferendo così al referendum un contenuto esplicitamente politico. L’annuncio, da parte del presidente del Consiglio, delle proprie dimissioni nel caso in cui la riforma fosse stata rigettata dagli elettori ha così trasformato il voto referendario in una sorta di plebiscito sulla persona del premier e sul suo progetto politico. Nella stessa direzione si è mosso anche, in larga parte, il fronte del No, presentando agli elettori il referendum come occasione non solo per «difendere la Costituzione», ma, molto spesso, anche per «mandare a casa» Renzi e il suo governo. La campagna ha dunque assunto toni molto accesi, e la sua inusuale durata ha contribuito a dare forma agli schieramenti contrapposti. La grande mobilitazione delle forze politiche e il susseguirsi degli endorsement, per l’uno e per l’altro fronte, da parte di personaggi più o meno noti, organizzazioni e associazioni, e finanche da parte di importanti esponenti politici di caratura internazionale, hanno fatto sì che il risultato sia rimasto fino all’ultimo estremamente incerto. Il tema dell’affluenza alle urne ha così assunto una rilevanza centrale. I dati raccolti dagli ultimi sondaggi registravano infatti, ancora a due settimane dalla consultazione, un’ampia quota di elettori indecisi rispetto alla scelta di recarsi al seggio. Era dunque chiaro che il più o meno esiguo vantaggio pronosticato per il fronte del No dagli ultimi dati resi disponibili poteva essere ribaltato o, al contrario, ulteriormente rafforzato solo grazie alla mobilitazione di quell’elettorato ancora non schierato. Del resto, proprio in considerazione dell’assenza del quorum, nessuno dei due schieramenti poteva contare sull’astensione come indiretto sostegno alla propria posizione. Per questo motivo, l’invito alla partecipazione è stato unanime, per quanto il suo effetto non fosse in alcun modo chiaro. I precedenti, d’altronde, non lasciavano ben sperare. Che l’istituto referendario, in generale, non goda di grande popolarità in Italia, almeno negli ultimi decenni, è cosa nota. Sia per il ricorso forse eccessivo che si è fatto a questo strumento, sia per la percezione di una sua scarsa utilità il referendum si configura ormai come un appuntamento elettorale di secondaria importanza. Il dato relativo all’affluenza alle urne ne è la prova: come avremo modo di approfondire in seguito, negli ultimi 15 anni si è superato raramente (e di poco) il 50 per cento degli aventi diritto e non di rado la partecipazione si è attestata su valori inferiori al 30 per cento. È certamente vero che, trattandosi di un referendum in materia costituzionale, l’appuntamento del 4 dicembre avesse, al di là degli aspetti procedurali relativi all’assenza del quorum, una portata ben diversa. La posta in gioco era chiaramente più alta, anche a prescindere dal significato «politico» che il voto ha assunto nella lunga campagna referendaria. Il fatto che oggetto del quesito fosse una radicale riscrittura del testo costituzionale rendeva certamente più evidente, anche agli occhi degli elettori meno attenti, la salienza della materia del contendere. Tuttavia, i dati dell’affluenza relativi ai due appuntamenti referendari costituzionali precedenti – nel 2001 e nel 2006 – non davano motivo di sperare in un’eccezionale risposta da parte degli elettori. Nel primo caso l’affluenza fu estremamente ridotta, attestandosi al 34,1 per cento degli aventi diritto. Maggiore fu invece l’interesse dimostrato dall’elettorato per il referendum costituzionale indetto nel giugno 2006, avente ad oggetto la legge costituzionale votata dalla maggioranza di centrodestra nel 2005. In quell’occasione la partecipazione toccò il 52,6 per cento dell’elettorato, grazie soprattutto ad una campagna elettorale più accesa, in cui il centro-sinistra, salito al governo poco prima del referendum, prese netta posizione contro la riforma. In entrambe le occasioni, però, le percentuali di voto si fermarono a livelli ben lontani da quelli generalmente registrati per le consultazioni politiche. D’altra parte, a poter incidere positivamente sulla partecipazione elettorale del 4 dicembre 2016 poteva essere, questa volta, proprio il carattere politico che sia i sostenitori sia i detrattori della riforma avevano attribuito all’esito del referendum. Anche tenendo conto di questo elemento, però, le previsioni non potevano che rimanere caute. Già da tempo, infatti, i trend della partecipazione dei cittadini italiani alle elezioni – compresi gli appuntamenti considerati più rilevanti, quali le elezioni politiche ed europee – mostravano preoccupanti segnali di un’espansione dell’astensionismo. Che la disaffezione per la politica, ritenuta la principale causa di questo generale disinteresse, potesse portare molti a disertare le urne anche in occasione del referendum era dunque un’ipotesi che non poteva essere scartata. Per tutti questi motivi le percentuali di affluenza registrate all’indomani del referendum hanno superato anche le più ottimistiche previsioni. La partecipazione al voto ha infatti toccato il 65,5 per cento degli aventi diritto (pari a 33.244.258 elettori), sfiorando il 68,5 per cento nel solo territorio italiano (31.997.916) con l’esclusione della circoscrizione estero, per la quale il dato sull’affluenza si è fermato al 30,8 per cento (1.246.342 elettori). Nel prossimo paragrafo mostreremo come i dati sull’affluenza varino a livello territoriale, in Italia e all’estero, analizzando inoltre la relazione fra partecipazione e scelta di voto. A emergere è la consueta differenziazione fra Nord e Sud del paese, con tassi di affluenza significativamente inferiori alla media nelle province meridionali. Si tratta di un quadro ben noto, che avremo modo di approfondire nel terzo paragrafo attraverso un’analisi diacronica della partecipazione, in cui metteremo a confronto il dato registrato il 4 dicembre con quelli relativi ai precedenti referendum (costituzionali e non) e alle elezioni politiche.

Il ritorno alle urne: anatomia di una partecipazione inaspettata / Andrea Pedrazzani; Luca Pinto. - STAMPA. - (2017), pp. 75-92.

Il ritorno alle urne: anatomia di una partecipazione inaspettata

PEDRAZZANI, ANDREA;PINTO, LUCA
2017

Abstract

Il 4 dicembre 2016 gli elettori italiani sono stati chiamati, per la terza volta negli ultimi 15 anni, a esprimersi su una proposta di riforma in materia costituzionale. L’istituto referendario era stato introdotto dai padri costituenti al fine di garantire la tutela della carta costituzionale e consentire ai cittadini di opporsi a modifiche del testo ritenute peggiorative. La logica originaria è dunque quella di consentire alle forze che non hanno appoggiato la riforma di opporvisi attraverso l’appello agli elettori. Proprio in virtù di questa funzione di garanzia, fu previsto che per questo tipo di referendum non fosse richiesto alcun quorum, come invece accade per i referendum abrogativi − il cui esito è valido solo nel caso in cui vi sia la partecipazione di almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto. La scelta di non estendere tale previsione ai referendum in materia costituzionale era volta, infatti, a rafforzare la posizione dei cittadini che si oppongono alla modifica dello status quo, impedendo che la non partecipazione di coloro che la appoggiano o sono indifferenti renda nulla la loro mobilitazione. L’assenza del quorum avrebbe dovuto, in linea teorica, rendere meno rilevante il tema dell’affluenza in occasione del referendum sulla riforma Renzi-Boschi. In pratica, però, una serie di elementi hanno fatto sì che esso risultasse cruciale nel corso di tutta la campagna referendaria. Va innanzitutto considerato che, a differenza di quanto ipotizzato dai padri costituenti, in questo caso la richiesta del passaggio referendario è stata avanzata dalle stesse forze di maggioranza che avevano promosso la revisione della Carta. Il governo ha dunque voluto attribuire all’esito del referendum un significato «confermativo» rispetto al contenuto della riforma. Tuttavia, per volontà esplicita dello stesso premier Matteo Renzi – pur parzialmente ritrattata nell’ultima fase della campagna referendaria – tale significato si è presto esteso all’operato complessivo dell’esecutivo in carica, conferendo così al referendum un contenuto esplicitamente politico. L’annuncio, da parte del presidente del Consiglio, delle proprie dimissioni nel caso in cui la riforma fosse stata rigettata dagli elettori ha così trasformato il voto referendario in una sorta di plebiscito sulla persona del premier e sul suo progetto politico. Nella stessa direzione si è mosso anche, in larga parte, il fronte del No, presentando agli elettori il referendum come occasione non solo per «difendere la Costituzione», ma, molto spesso, anche per «mandare a casa» Renzi e il suo governo. La campagna ha dunque assunto toni molto accesi, e la sua inusuale durata ha contribuito a dare forma agli schieramenti contrapposti. La grande mobilitazione delle forze politiche e il susseguirsi degli endorsement, per l’uno e per l’altro fronte, da parte di personaggi più o meno noti, organizzazioni e associazioni, e finanche da parte di importanti esponenti politici di caratura internazionale, hanno fatto sì che il risultato sia rimasto fino all’ultimo estremamente incerto. Il tema dell’affluenza alle urne ha così assunto una rilevanza centrale. I dati raccolti dagli ultimi sondaggi registravano infatti, ancora a due settimane dalla consultazione, un’ampia quota di elettori indecisi rispetto alla scelta di recarsi al seggio. Era dunque chiaro che il più o meno esiguo vantaggio pronosticato per il fronte del No dagli ultimi dati resi disponibili poteva essere ribaltato o, al contrario, ulteriormente rafforzato solo grazie alla mobilitazione di quell’elettorato ancora non schierato. Del resto, proprio in considerazione dell’assenza del quorum, nessuno dei due schieramenti poteva contare sull’astensione come indiretto sostegno alla propria posizione. Per questo motivo, l’invito alla partecipazione è stato unanime, per quanto il suo effetto non fosse in alcun modo chiaro. I precedenti, d’altronde, non lasciavano ben sperare. Che l’istituto referendario, in generale, non goda di grande popolarità in Italia, almeno negli ultimi decenni, è cosa nota. Sia per il ricorso forse eccessivo che si è fatto a questo strumento, sia per la percezione di una sua scarsa utilità il referendum si configura ormai come un appuntamento elettorale di secondaria importanza. Il dato relativo all’affluenza alle urne ne è la prova: come avremo modo di approfondire in seguito, negli ultimi 15 anni si è superato raramente (e di poco) il 50 per cento degli aventi diritto e non di rado la partecipazione si è attestata su valori inferiori al 30 per cento. È certamente vero che, trattandosi di un referendum in materia costituzionale, l’appuntamento del 4 dicembre avesse, al di là degli aspetti procedurali relativi all’assenza del quorum, una portata ben diversa. La posta in gioco era chiaramente più alta, anche a prescindere dal significato «politico» che il voto ha assunto nella lunga campagna referendaria. Il fatto che oggetto del quesito fosse una radicale riscrittura del testo costituzionale rendeva certamente più evidente, anche agli occhi degli elettori meno attenti, la salienza della materia del contendere. Tuttavia, i dati dell’affluenza relativi ai due appuntamenti referendari costituzionali precedenti – nel 2001 e nel 2006 – non davano motivo di sperare in un’eccezionale risposta da parte degli elettori. Nel primo caso l’affluenza fu estremamente ridotta, attestandosi al 34,1 per cento degli aventi diritto. Maggiore fu invece l’interesse dimostrato dall’elettorato per il referendum costituzionale indetto nel giugno 2006, avente ad oggetto la legge costituzionale votata dalla maggioranza di centrodestra nel 2005. In quell’occasione la partecipazione toccò il 52,6 per cento dell’elettorato, grazie soprattutto ad una campagna elettorale più accesa, in cui il centro-sinistra, salito al governo poco prima del referendum, prese netta posizione contro la riforma. In entrambe le occasioni, però, le percentuali di voto si fermarono a livelli ben lontani da quelli generalmente registrati per le consultazioni politiche. D’altra parte, a poter incidere positivamente sulla partecipazione elettorale del 4 dicembre 2016 poteva essere, questa volta, proprio il carattere politico che sia i sostenitori sia i detrattori della riforma avevano attribuito all’esito del referendum. Anche tenendo conto di questo elemento, però, le previsioni non potevano che rimanere caute. Già da tempo, infatti, i trend della partecipazione dei cittadini italiani alle elezioni – compresi gli appuntamenti considerati più rilevanti, quali le elezioni politiche ed europee – mostravano preoccupanti segnali di un’espansione dell’astensionismo. Che la disaffezione per la politica, ritenuta la principale causa di questo generale disinteresse, potesse portare molti a disertare le urne anche in occasione del referendum era dunque un’ipotesi che non poteva essere scartata. Per tutti questi motivi le percentuali di affluenza registrate all’indomani del referendum hanno superato anche le più ottimistiche previsioni. La partecipazione al voto ha infatti toccato il 65,5 per cento degli aventi diritto (pari a 33.244.258 elettori), sfiorando il 68,5 per cento nel solo territorio italiano (31.997.916) con l’esclusione della circoscrizione estero, per la quale il dato sull’affluenza si è fermato al 30,8 per cento (1.246.342 elettori). Nel prossimo paragrafo mostreremo come i dati sull’affluenza varino a livello territoriale, in Italia e all’estero, analizzando inoltre la relazione fra partecipazione e scelta di voto. A emergere è la consueta differenziazione fra Nord e Sud del paese, con tassi di affluenza significativamente inferiori alla media nelle province meridionali. Si tratta di un quadro ben noto, che avremo modo di approfondire nel terzo paragrafo attraverso un’analisi diacronica della partecipazione, in cui metteremo a confronto il dato registrato il 4 dicembre con quelli relativi ai precedenti referendum (costituzionali e non) e alle elezioni politiche.
2017
La prova del no. Il sistema politico italiano dopo il referendum costituzionale
75
92
Il ritorno alle urne: anatomia di una partecipazione inaspettata / Andrea Pedrazzani; Luca Pinto. - STAMPA. - (2017), pp. 75-92.
Andrea Pedrazzani; Luca Pinto
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