I recenti progressi ottenuti nel campo della chemio/radioterapia hanno notevolmente aumentato il tasso di sopravvivenza di bambine, adolescenti e donne adulte affette da patologie neoplastiche. Tali trattamenti citotossici possono però compromettere severamente o eradicare del tutto il potenziale riproduttivo delle pazienti; i danni a carico dell’ovaio si traducono nella deplezione del pool follicolare che può provocare arresto dello sviluppo, sterilità e assenza di menarca nella bambina, perdita della fertilità e fallimento ovarico precoce (POF) nella donna adulta. Le pazienti affette da POF manifestano tutti i sintomi delle pazienti in menopausa, talvolta amplificati dalla rapidità con cui tale condizione si instaura e dalla giovane età: sintomi vasomotori (vampate di calore, sudorazioni profuse, sudorazioni notturne), disturbi del tono dell’umore (in senso depressivo), disturbi legati all’ipoestrogenismo (secchezza delle mucose), disturbi del sonno e disfunzioni sessuali. A queste complicanze a breve termine si associano quelle a lungo termine come osteoporosi, aumentata incidenza di eventi cerebro-cardiovascolari, invecchiamento precoce, aumentata incidenza di patologie del sistema nervoso centrale. L’entità del danno ovarico indotto dai trattamenti antiblastici dipende da molti fattori: età della paziente, tipo e dosaggio totale dell’agente chemioterapico e/o radioterapico utilizzato, durata della somministrazione e dimensione iniziale della riserva ovarica. La riserva ovarica è predeterminata alla nascita e diminuisce con l’avanzare dell’età, quindi le pazienti più anziane sono sicuramente più suscettibili ai danni da chemio/radioterapia. Gravidanze spontanee si verificano, infatti, nel 28% delle donne trattate prima dei 20 anni, mentre nelle donne trattate dopo i 25 anni questa percentuale scende al 5%. I chemioterapici sono classificati rispetto alla loro gonadotossicità come agenti ad alto rischio (ciclofosfammide, busulfano, ifosfammide, melfalan, clorambucile, dacarbazina, procarbazina, mostarde azotate), a rischio intermedio (doxorubicina, cisplatino, carboplatino) e a basso rischio (metotrexate, 5-fluorouracile, vincristina, bleomicina, actinomicina). Gli agenti alchilanti rappresentano i chemioterapici a più alto rischio di indurre fallimento ovarico e deplezione follicolare in modo dose-dipendente: la ciclofosfammide, ad esempio, è il chemioterapico più comunemente implicato nei danni agli ovociti e alle cellule della granulosa, portando ad amenorrea e POF nel 70% delle pazienti. La chemioterapia citotossica associata a radioterapia, per esempio per il trattamento del linfoma, determina insufficienza ovarica nel 38-57% delle pazienti. Il regime di condizionamento per il trapianto di midollo osseo, caratterizzato da chemioterapia e radioterapia ad alte dosi, rappresenta il protocollo terapeutico maggiormente gonadotossico: oltre il 90% delle pazienti trapiantate presenta POF. Per quanto riguarda la sola radioterapia, è stato osservato che una dose di 5-20 Gray (Gy) somministrata a livello pelvico è sufficiente per annullare completamente la funzione gonadica, qualunque sia l’età della paziente. La dose d’irradiazione richiesta per distruggere il 50% della riserva ovarica nel caso invece di total body irradiation è inferiore ai 2 Gy. Considerando il sempre maggiore numero di pazienti che guariscono dopo neoplasie, si deve poter pensare al loro benessere globale e all’aspettativa di una vita normale. Per le donne adulte, affrontare le terapie anticancro con la speranza di preservare la propria fertilità risulta essere un sostegno psicologico fondamentale. Alle bambine in età prepubere, colpite da patologie neoplastiche si dovrebbe poter offrire, dopo la guarigione, una normale crescita e uno sviluppo fisiologico. La crioconservazione del tessuto ovarico è una tecnica particolarmente innovativa per preservare la fertilità. Tale procedura può essere effettuata in qualsiasi momento del ciclo mestruale, evitando ritardi nell’inizio della terapia antiblastica, e consente di recuperare un elevato numero di follicoli primordiali, che risultano essere meno suscettibili ai danni da congelamento, poiché sono di piccole dimensioni, mancano della zona pellucida e sono metabolicamente quiescenti. La crioconservazione del tessuto ovarico è indicata per le pazienti affette da diverse patologie maligne: sistemiche (linfoma di Hodgkin e non-Hodgkin, melanoblastoma), extra-pelviche (osteosarcoma, sarcoma di Ewing, carcinoma tiroideo, renale e mammario, melanoma, neuroblastoma), pelviche non ginecologiche (sarcoma, sarcoblastoma, rabdomiosarcoma, tumore sacrale, neoplasie retto-sigmoidali), pelviche ginecologiche (carcinoma vaginale, vulvare e della cervice) e da patologie benigne di tipo ematologico o autoimmune (morbo di Crohn, lupus eritematoso, artrite reumatoide, periartrite nodosa, talassemia, anemia) o di tipo genetico (sindrome di Turner completa o a mosaico). In particolare la crioconservazione del tessuto ovarico rappresenta l’unica opzione per le pazienti in età prepubere e per le pazienti affette da tumori ormono-sensibili che non possono sottoporsi a trattamenti alternativi. È estremamente importante stabilire i criteri di inclusione ed esclusione per le candidate alla crioconservazione del tessuto ovarico. Il prelievo del tessuto ovarico può essere effettuato solo se i test per le malattie infettive (HIV, epatite B-C, Treponema pallidum) risultano negativi. L’età della paziente è determinante in quanto la deplezione follicolare fisiologica è accelerata intorno ai 37-38 anni ed è quindi importante fissare un limite di età, così come è necessario valutare la percentuale di rischio di esaurimento ovarico in funzione della terapia oncologica prevista. Parametri da considerare in merito alla terapia sono il tipo di chemioterapico, il dosaggio cumulativo (maggiore è il dosaggio totale, maggiore è il danno provocato ai follicoli), la combinazione di più farmaci, che può provocare danno ovarico anche a dosaggi totali inferiori, e l’eventuale combinazione con la radioterapia, fattore ad alto rischio soprattutto se effettuata a livello pelvico. Per quanto riguarda invece la sola radioterapia bisogna considerare il campo d’azione e il dosaggio, che variano in base a localizzazione, dimensioni e tipo di tumore. Nel caso in cui la paziente si sia dovuta sottoporre a chemio/radioterapia prima del prelievo del tessuto ovarico è inoltre necessario valutare attentamente, mediante dosaggi ormonali ed ecografia pelvica, il danno ovarico subito. Inoltre è importante valutare la probabilità di sopravvivenza a 5 anni dalla remissione della malattia.

Crioconservazione del tessuto ovarico

FABBRI, RAFFAELLA;MAGNANI, VALENTINA;PARAZZA, ISABELLA
2012

Abstract

I recenti progressi ottenuti nel campo della chemio/radioterapia hanno notevolmente aumentato il tasso di sopravvivenza di bambine, adolescenti e donne adulte affette da patologie neoplastiche. Tali trattamenti citotossici possono però compromettere severamente o eradicare del tutto il potenziale riproduttivo delle pazienti; i danni a carico dell’ovaio si traducono nella deplezione del pool follicolare che può provocare arresto dello sviluppo, sterilità e assenza di menarca nella bambina, perdita della fertilità e fallimento ovarico precoce (POF) nella donna adulta. Le pazienti affette da POF manifestano tutti i sintomi delle pazienti in menopausa, talvolta amplificati dalla rapidità con cui tale condizione si instaura e dalla giovane età: sintomi vasomotori (vampate di calore, sudorazioni profuse, sudorazioni notturne), disturbi del tono dell’umore (in senso depressivo), disturbi legati all’ipoestrogenismo (secchezza delle mucose), disturbi del sonno e disfunzioni sessuali. A queste complicanze a breve termine si associano quelle a lungo termine come osteoporosi, aumentata incidenza di eventi cerebro-cardiovascolari, invecchiamento precoce, aumentata incidenza di patologie del sistema nervoso centrale. L’entità del danno ovarico indotto dai trattamenti antiblastici dipende da molti fattori: età della paziente, tipo e dosaggio totale dell’agente chemioterapico e/o radioterapico utilizzato, durata della somministrazione e dimensione iniziale della riserva ovarica. La riserva ovarica è predeterminata alla nascita e diminuisce con l’avanzare dell’età, quindi le pazienti più anziane sono sicuramente più suscettibili ai danni da chemio/radioterapia. Gravidanze spontanee si verificano, infatti, nel 28% delle donne trattate prima dei 20 anni, mentre nelle donne trattate dopo i 25 anni questa percentuale scende al 5%. I chemioterapici sono classificati rispetto alla loro gonadotossicità come agenti ad alto rischio (ciclofosfammide, busulfano, ifosfammide, melfalan, clorambucile, dacarbazina, procarbazina, mostarde azotate), a rischio intermedio (doxorubicina, cisplatino, carboplatino) e a basso rischio (metotrexate, 5-fluorouracile, vincristina, bleomicina, actinomicina). Gli agenti alchilanti rappresentano i chemioterapici a più alto rischio di indurre fallimento ovarico e deplezione follicolare in modo dose-dipendente: la ciclofosfammide, ad esempio, è il chemioterapico più comunemente implicato nei danni agli ovociti e alle cellule della granulosa, portando ad amenorrea e POF nel 70% delle pazienti. La chemioterapia citotossica associata a radioterapia, per esempio per il trattamento del linfoma, determina insufficienza ovarica nel 38-57% delle pazienti. Il regime di condizionamento per il trapianto di midollo osseo, caratterizzato da chemioterapia e radioterapia ad alte dosi, rappresenta il protocollo terapeutico maggiormente gonadotossico: oltre il 90% delle pazienti trapiantate presenta POF. Per quanto riguarda la sola radioterapia, è stato osservato che una dose di 5-20 Gray (Gy) somministrata a livello pelvico è sufficiente per annullare completamente la funzione gonadica, qualunque sia l’età della paziente. La dose d’irradiazione richiesta per distruggere il 50% della riserva ovarica nel caso invece di total body irradiation è inferiore ai 2 Gy. Considerando il sempre maggiore numero di pazienti che guariscono dopo neoplasie, si deve poter pensare al loro benessere globale e all’aspettativa di una vita normale. Per le donne adulte, affrontare le terapie anticancro con la speranza di preservare la propria fertilità risulta essere un sostegno psicologico fondamentale. Alle bambine in età prepubere, colpite da patologie neoplastiche si dovrebbe poter offrire, dopo la guarigione, una normale crescita e uno sviluppo fisiologico. La crioconservazione del tessuto ovarico è una tecnica particolarmente innovativa per preservare la fertilità. Tale procedura può essere effettuata in qualsiasi momento del ciclo mestruale, evitando ritardi nell’inizio della terapia antiblastica, e consente di recuperare un elevato numero di follicoli primordiali, che risultano essere meno suscettibili ai danni da congelamento, poiché sono di piccole dimensioni, mancano della zona pellucida e sono metabolicamente quiescenti. La crioconservazione del tessuto ovarico è indicata per le pazienti affette da diverse patologie maligne: sistemiche (linfoma di Hodgkin e non-Hodgkin, melanoblastoma), extra-pelviche (osteosarcoma, sarcoma di Ewing, carcinoma tiroideo, renale e mammario, melanoma, neuroblastoma), pelviche non ginecologiche (sarcoma, sarcoblastoma, rabdomiosarcoma, tumore sacrale, neoplasie retto-sigmoidali), pelviche ginecologiche (carcinoma vaginale, vulvare e della cervice) e da patologie benigne di tipo ematologico o autoimmune (morbo di Crohn, lupus eritematoso, artrite reumatoide, periartrite nodosa, talassemia, anemia) o di tipo genetico (sindrome di Turner completa o a mosaico). In particolare la crioconservazione del tessuto ovarico rappresenta l’unica opzione per le pazienti in età prepubere e per le pazienti affette da tumori ormono-sensibili che non possono sottoporsi a trattamenti alternativi. È estremamente importante stabilire i criteri di inclusione ed esclusione per le candidate alla crioconservazione del tessuto ovarico. Il prelievo del tessuto ovarico può essere effettuato solo se i test per le malattie infettive (HIV, epatite B-C, Treponema pallidum) risultano negativi. L’età della paziente è determinante in quanto la deplezione follicolare fisiologica è accelerata intorno ai 37-38 anni ed è quindi importante fissare un limite di età, così come è necessario valutare la percentuale di rischio di esaurimento ovarico in funzione della terapia oncologica prevista. Parametri da considerare in merito alla terapia sono il tipo di chemioterapico, il dosaggio cumulativo (maggiore è il dosaggio totale, maggiore è il danno provocato ai follicoli), la combinazione di più farmaci, che può provocare danno ovarico anche a dosaggi totali inferiori, e l’eventuale combinazione con la radioterapia, fattore ad alto rischio soprattutto se effettuata a livello pelvico. Per quanto riguarda invece la sola radioterapia bisogna considerare il campo d’azione e il dosaggio, che variano in base a localizzazione, dimensioni e tipo di tumore. Nel caso in cui la paziente si sia dovuta sottoporre a chemio/radioterapia prima del prelievo del tessuto ovarico è inoltre necessario valutare attentamente, mediante dosaggi ormonali ed ecografia pelvica, il danno ovarico subito. Inoltre è importante valutare la probabilità di sopravvivenza a 5 anni dalla remissione della malattia.
2012
Biotecnologie della Riproduzione Umana
511
524
Fabbri R; Magnani V; Parazza I
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