Nel quadro di un regime che si voleva totalitario, il significato principale della svolta razziale del 1938 va ricercato nella volontà di Mussolini e del gruppo dirigente fascista di creare, intorno alla questione antisemita, una mobilitazione costante di uomini e apparati. Un banco di prova per la macchina politica e amministrativa del regime e per la capacità delle sue élites di «allinearsi» prontamente alle direttive del governo. La legislazione antisemita costituisce, dunque, in sede di analisi storica, un frangente quanto mai interessante per esaminare il rapporto centro-periferia durante gli anni del regime: uno dei temi che, in questa sede, più interessano. La capacità di accostare compiutamente fonti documentarie di archivi pubblici centrali (quelli dei ministeri) e locali (i fondi delle prefetture e delle amministrazioni comunali) è la caratteristica metodologica più importante del recente volume di Marie-Anne Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei. Da un punto di vista storiografico, prediligere il versante istituzionale significa superare di slancio le insistenze che il pionieristico studio di Renzo De Felice (1961) portò sui temi della psicologia popolare e della cultura media degli italiani, storicamente liberi dai germi dell’antisemitismo, e procedere, invece, con la consapevolezza che, quando appena l’attività di censimento ed esclusione dell’amministrazione dello Stato funzioni con qualche efficienza, non è necessario che l’antisemitismo sia di massa per segnare profondamente, con le sue nefandezze, la storia di un paese. Concentrarsi sull’organizzazione amministrativa della persecuzione implica, a livello preliminare, la necessità di fare i conti con i limiti di consultabilità fissati dalla normativa italiana sull’accesso agli archivi, che nel caso di pratiche nominative e personali, relative ad affari privati, stabilisce in settant’anni il limite cronologico oltre il quale le carte divengono liberamente consultabili. In questa normativa rientrano gli incartamenti prodotti dagli «Uffici affari ebraici», che a partire dal 1938 vennero attivati nelle prefetture e nelle questure italiane. Non a caso, il problema delle fonti fu sollevato con forza da Michele Sarfatti, nell’introduzione al suo volume Gli ebrei nell’Italia fascista (2000), dove lo storico denunciava l’impossibilità di attingere, se non in misura molto limitata, ai documenti custoditi negli archivi di Stato. Il settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della legislazione razziale (1938-2008) racchiude, dunque, in sé l’opportunità di accedere a nuove fonti archivistiche. Possibilità che si può estendere a tutto il periodo 1938-1945, quando si faccia appello all’art. 123 del d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che prevede la possibilità di inoltrare al Ministero dell’Interno, anche anteriormente allo scadere del termine dei settant’anni, una motivata richiesta di autorizzazione alla consultazione per scopi storici. Muovendosi in questo modo, chi scrive ha attenuto l’autorizzazione a consultare integralmente, presso l’Archivio di Stato di Bologna, le due serie archivistiche denominate «Ufficio asportazione beni ebraici, 1938-1944» e «Ufficio ebrei, 1938-1945», appartenenti rispettivamente ai fondi di Prefettura e Questura. A questo “caso” di studio locale verrà affiancata, nel saggio in preparazione, l’analisi delle modalità di schedatura e discriminazione attuate nei confronti del personale di «razza ebraica» di un importante ufficio centrale: la Direzione generale accademie e biblioteche del Ministero dell’Educazione nazionale. Se, infatti, è ben noto il ruolo trascinante del ministro Bottai nel processo di «arianizzazione», ancora da approfondire sono, invece, le modalità operative concretamente attuatesi, a partire dall’estate-autunno 1938, nei diversi rami dell’Educazione nazionale.

Amministrare il razzismo: la persecuzione antiebraica in Italia

DE MARIA, CARLO
2008

Abstract

Nel quadro di un regime che si voleva totalitario, il significato principale della svolta razziale del 1938 va ricercato nella volontà di Mussolini e del gruppo dirigente fascista di creare, intorno alla questione antisemita, una mobilitazione costante di uomini e apparati. Un banco di prova per la macchina politica e amministrativa del regime e per la capacità delle sue élites di «allinearsi» prontamente alle direttive del governo. La legislazione antisemita costituisce, dunque, in sede di analisi storica, un frangente quanto mai interessante per esaminare il rapporto centro-periferia durante gli anni del regime: uno dei temi che, in questa sede, più interessano. La capacità di accostare compiutamente fonti documentarie di archivi pubblici centrali (quelli dei ministeri) e locali (i fondi delle prefetture e delle amministrazioni comunali) è la caratteristica metodologica più importante del recente volume di Marie-Anne Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei. Da un punto di vista storiografico, prediligere il versante istituzionale significa superare di slancio le insistenze che il pionieristico studio di Renzo De Felice (1961) portò sui temi della psicologia popolare e della cultura media degli italiani, storicamente liberi dai germi dell’antisemitismo, e procedere, invece, con la consapevolezza che, quando appena l’attività di censimento ed esclusione dell’amministrazione dello Stato funzioni con qualche efficienza, non è necessario che l’antisemitismo sia di massa per segnare profondamente, con le sue nefandezze, la storia di un paese. Concentrarsi sull’organizzazione amministrativa della persecuzione implica, a livello preliminare, la necessità di fare i conti con i limiti di consultabilità fissati dalla normativa italiana sull’accesso agli archivi, che nel caso di pratiche nominative e personali, relative ad affari privati, stabilisce in settant’anni il limite cronologico oltre il quale le carte divengono liberamente consultabili. In questa normativa rientrano gli incartamenti prodotti dagli «Uffici affari ebraici», che a partire dal 1938 vennero attivati nelle prefetture e nelle questure italiane. Non a caso, il problema delle fonti fu sollevato con forza da Michele Sarfatti, nell’introduzione al suo volume Gli ebrei nell’Italia fascista (2000), dove lo storico denunciava l’impossibilità di attingere, se non in misura molto limitata, ai documenti custoditi negli archivi di Stato. Il settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della legislazione razziale (1938-2008) racchiude, dunque, in sé l’opportunità di accedere a nuove fonti archivistiche. Possibilità che si può estendere a tutto il periodo 1938-1945, quando si faccia appello all’art. 123 del d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che prevede la possibilità di inoltrare al Ministero dell’Interno, anche anteriormente allo scadere del termine dei settant’anni, una motivata richiesta di autorizzazione alla consultazione per scopi storici. Muovendosi in questo modo, chi scrive ha attenuto l’autorizzazione a consultare integralmente, presso l’Archivio di Stato di Bologna, le due serie archivistiche denominate «Ufficio asportazione beni ebraici, 1938-1944» e «Ufficio ebrei, 1938-1945», appartenenti rispettivamente ai fondi di Prefettura e Questura. A questo “caso” di studio locale verrà affiancata, nel saggio in preparazione, l’analisi delle modalità di schedatura e discriminazione attuate nei confronti del personale di «razza ebraica» di un importante ufficio centrale: la Direzione generale accademie e biblioteche del Ministero dell’Educazione nazionale. Se, infatti, è ben noto il ruolo trascinante del ministro Bottai nel processo di «arianizzazione», ancora da approfondire sono, invece, le modalità operative concretamente attuatesi, a partire dall’estate-autunno 1938, nei diversi rami dell’Educazione nazionale.
2008
De Maria C.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11585/104034
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